Jimi Hendrix e il club dei 27
Alessia Mazzoli 5 Z
James
Marshall detto Jimi Hendrix, nacque come Johnny Allen Hendrix il 27
novembre del 1942, a Seattle, città in cui crebbe nell’estrema
povertà, mentre badava al fratello minore Leon. Con tanti sforzi e
altrettanti dissapori, iniziando da un semplice Danelectro, comprato
dal padre, si aprì spazio in uno dei più ardui e spietati campi.
Molte volte pensò di rinunciare a tutto, ma questo non faceva parte
della sua natura. Ispirato dal jazz di Kirk, Coltrane e in
particolare da quello di Davis, Jimi diventò, secondo alcuni
critici, il miglior chitarrista che la musica popolare abbia mai
avuto; un chitarrista che cambiò il suono della musica blues e rock
di quell’epoca, poiché con i suoi giochi di alchimia, l’autodidatta
mancino, diede vita ad uno stile proprio che incorporava e mischiava
omogeneamente il psichedelia e il blues, il rock inglese e il funky
e l’improvvisazione al soul. Fra i primi ad utilizzare sotto forma
di fuzz la distorsione, a dare un’importanza nelle melodie al
feedback, che era allora visto solo come un fastidioso rumore, a
fare uso del pedale wah wah con inventiva.
Benché fosse un uomo che influenzò tutti e copiò nessuno, ammirato
da tanti per quella strana magia che si produceva quando la
resistenza che le corde della sua Stratocaster bianca ponevano si
scioglieva sotto le sue abili dita in melodiose armonie, Hendrix fu
un uomo umile; che aveva sempre un sorriso sulle labbra e dei
consigli utili per chi ne avesse bisogno; che credeva che una
chitarra accompagnata da dedizione sarebbe bastata per diventare
bravi chitarristi.
Jimi Hendrix disse: “la luce che brilla il doppio dura la metà”. La
luce di Jimi infatti non fu un’eccezione a questa sua regola. Quella
luce che brillò con tanta intensità esplose nel Samarkand hotel,
Notting Hill, l’appartamento della sua fidanzata, Monika Dannemann,
e si dileguò così il 18 settembre, in una Londra grigia e triste.
Secondo Jagger, Hendrix, finì nel cosiddetto “deep end”, perché
soccombette ai suoi demoni, perché raggiunta la vetta del successo,
si sentì intrappolato nello stesso repertorio - Voodoo Child, Hey
Joe, Purple haze – che ormai gli risultava tediante. Di lui rimasero
solo dei versi che aveva dedicato, prima di morire, alla sua
fidanzata Monika, intitolati “The story of life”: «La storia di una
vita è più veloce di un batter di ciglia, la storia di un amore è
ciao e arrivederci fino a quando ci incontreremo di nuovo». Burdon,
però, nel suo libro sostiene che tali versi non potevano essere
considerati come una lettera di suicidio perché: “era una lettera di
addio e una lettera di ciao. Non credo che Jimi si sia suicidato nel
modo convenzionale. Aveva solo deciso di uscire quando ha voluto
farlo”. Volendo o non volendo, così facendo, Jimi entrò nel club dei
27, inaugurato da Robert Johnson e continuato da personalità come
Cobain, Winehouse, Joplin, Morrison.
In comune i membri del club 27 avevano un’anima che languiva e
una bocca che si annegava nel sangue delle parole che rigurgitava
dalle viscere. Secondo alcuni studi scientifici queste mere
coincidenze che legano gli artisti del club con un leggero filo,
appeso tra mistero e leggenda, sono riconducibili: al labirinto
delle droghe che consumavano e che i propri organismi dopo parecchi
anni non riuscivano più a metabolizzare, e all’immaginario
collettivo, poiché secondo le statistiche, l’età di 56 è invece
l’età di morte più frequente per i musicisti, indipendentemente
dalla loro bravura.
Come disse Massimo Gramellini, giornalista, editorialista e
vicedirettore del Corriere della Sera, in Avrò cura di te “ti sei
mai chiesto perché le corde suonano Giò? Fanno resistenza alla
pressione. È da quella pressione che nasce la musica. Come nella
vita: è dalla capacità di resistere alla pressione che nascerà la
tua musica migliore”; apparentemente, le corde su cui scorrevano
impetuosamente le dita infrante dei membri del club dei 27
ricevettero troppa pressione e per questo si spezzarono troppo
presto.
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Il distanziamento fisico e l’unità esistenziale in tempi di pandemia.
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