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PRIMO NUMERO ANNO 2018

La scelta di morire divide le coscienze - Agnese Messina - classe III XUomo in equilibrio

 La scelta di morire, per i malati terminali divide le coscienze. Se siamo liberi di vivere come vogliamo, siamo anche liberi di morire quando vogliamo?
Le risposte sono due: il sì di chi ammette l’eutanasia in presenza di atroci sofferenze e il no di coloro che non accettano che si possa decidere della morte propria o altrui.
Già in epoca babilonese vi erano stati casi di suicidio assistito, così come nel periodo pre-cristiano, con l’epicureismo e con lo stoicismo (le cronache del tempo ricordano la morte di Seneca).
Tuttavia, è nella prima metà del ventesimo secolo che il tema fa la sua vera e propria comparsa.
Argomento delicato di cui si discute sempre più, in seguito alla morte di Fabiano Antoniani, l'uomo di 40 anni che, dopo essere rimasto tetraplegico in un incidente nel 2014, ha chiesto allo Stato italiano una legge per poter usufruire dell'eutanasia. Fabiano ha poi scelto di andare a morire in Svizzera, in una clinica dove il suicidio assistito viene praticato nei casi di malattie gravi e non recuperabili.
Fabiano Antoniani, meglio noto come DJ Fabo, nel suo testamento morale spiega i motivi della sua decisione e le sofferenze che ha dovuto sopportare dal giorno dell’incidente.
La legislazione italiana non prevede l'eutanasia e la classifica come suicidio assistito, punibile fino a 12 anni di reclusione per chi “assiste” il malato.
Ma quale giudice può stabilire il limite oltre il quale si riesce a conferire significato e valore alla propria esistenza? Fino a che punto la vita di un uomo va difesa ad oltranza anche quando la sofferenza è tale da renderla disumana?
Dopo la morte di Fabiano il dibattito si è riacceso in Italia e nel nostro Parlamento si sta pensando a una legge, grazie anche all'appello di numerosi medici. Chi non riesce più a tollerare di vivere una condizione fisica, divenuta ormai insostenibile, non può continuare a fuggire all’estero come un “clandestino”; perché è un prezzo troppo alto pagato alla pigrizia di una classe politica incapace di assumersi le proprie responsabilità.
«Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire», diceva dj Fabo nell’appello rivolto al Presidente della Repubblica, affinché intervenisse presso il Parlamento, per far approvare al più presto la legge sul testamento biologico e il fine vita.
Certo, si possono avere diverse opinioni, tutte condivisibili o meno, che rispecchiano due differenti modi di vedere la vita: coloro che sostengono l’inviolabilità di quest’ultima, quale intangibile dono di Dio, e altri che la considerano un fattore biologico, che si può interrompere se causa sofferenza e si è arrivati a perdere la propria dignità.
Ognuno di noi ha il diritto di comportarsi come ritiene più opportuno: la vita è nostra; la vita è di chi la vive.
La vita è un diritto, non un obbligo.
Alla fine l’opzione migliore sarebbe puntare sulla libertà, la libertà di tutti: la libertà dei cattolici, dei non-cattolici, dei non-credenti. Per la libertà di rassegnarsi alla sofferenza e per la libertà di non rassegnarsi.
La sofferenza psicofisica è indubbiamente una schiavitù. Ogni uomo ha un suo margine di sopportazione soggettiva, oltre il quale la sofferenza viene considerata e vissuta come una schiavitù insopportabile.
Nessuno può deciderlo al posto suo. La sofferenza sopportabile per qualcuno può essere insopportabile per un altro. Senza che il primo abbia ragione e il secondo torto o viceversa.
Le due concezioni di vita non sono parallele, né complementari. Sono, invece, profondamente asimmetriche.
È il caso di essere più espliciti. La concezione contraria alla libertà di morire vorrebbe che il divieto legale di decidere della propria morte fosse imposto a tutti (anche ai sostenitori dell’altra concezione). La concezione favorevole alla libertà di morire, di contro, ammettendo che ciascuno possa legalmente disporre di sé, consentirebbe a chiunque di scegliere se e quando porre termine alle proprie sofferenze.
In altri termini, mentre la concezione contraria alla libertà di morire, se tradotta in legge, si imporrebbe inevitabilmente a tutti, la concezione favorevole alla libertà di morire, consentirebbe ad ognuno di seguire la propria volontà.
Può il legislatore di uno Stato laico, ossia uno Stato tenuto ad accogliere e conciliare le diverse concezioni della vita, adottare una posizione di negazione del problema?
L’Italia è una delle poche democrazie occidentali che non ha ancora approvato due leggi fondamentali: quella sul testamento biologico e quella di istituzione del reato di tortura. Ovviamente si tratta di questioni del tutto diverse, ma che sembrano toccarsi in un punto terribile. D’altro canto, sopportare qualcosa di “insopportabile” come una vita di sofferenza e malattia, non è forse una forma di tortura?



























































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